La gestione documentale negletta: dai Savoia a Coliandro
Il Piemonte si presenta, in un panorama storico italiano dominato, almeno nella fascia centrale dello Stivale, dalla dimensione comunale e da un rapporto incerto fra autonomie locali, Impero e livelli di potere intermedi, quasi come un unicum in cui la burocrazia e i rapporti istituzionali rigidamente gerarchici dello stato-apparato sono più antichi ed evidenti che altrove. Tralasciando considerazioni storiche che si allontanano dalle mie personali attitudini di analisi, vale la pena riservare attenzione alla situazione degli archivi delle istituzioni della periferia sabauda, come emerge dalla produzione normativa piemontese nel periodo a cavallo dell’occupazione napoleonica – periodo in cui anche in altre zone di Italia si rafforza l’impostazione burocratica delle istituzioni -, evidenziare alcuni punti di contatto e di divergenza, per certi versi sorprendenti, con i nostri giorni e cogliere l’occasione per qualche divagazione.
Fra il XVIII e il XIX secolo, lo Stato sabaudo emana una fitta serie di provvedimenti, distanziati di pochi decenni l’uno dall’altro che trattano l’ordinamento e l’amministrazione delle comunità periferiche (i comuni) e che, fra l’altro, dispongono in materia di tenuta della documentazione e degli archivi. Senza pretesa di completezza[1]Chi volesse approfondire trova, anche disponibili gratuitamente online, rassegne sistematiche, complete e ragionate. Per esempio: Norme sabaude per gli archivi dei comuni, Torino, Centro studi … Continue reading, giusto per fornire una panoramica che sia di spunto a qualche considerazione, se ne citano tre, con l’annotazione di alcuni dei loro contenuti:
- 22 maggio 1733, Ordine istruttivo dato dall’ufficio dell’Intendenza di Torino alle città e comunità della provincia, per l’esecuzione del Regio editto 29 aprile 1733: non è il primo atto in materia e infatti ne richiama di precedenti, quando ripete l’ordine di recuperare e “riporre nel pubblico suo archivio tutte le scritture di comunità, che potevano ancor ritrovarsi appresso terzi”, di tenere l’archivio ordinato e separato per “qualità, tempo e materia”;
- 6 giugno 1775, Regolamento per le amministrazioni de’ pubblici nelle città, borghi e luoghi dei regi stati in terra ferma di qua dai monti: rinnova l’ordine a città e comunità di tenere “riposte, ordinate e custodite le proprie scritture […] in una camera a volto, e rimota da pericolo di fuoco” e “a formare, ove già non l’avesse, un inventario dettagliato” da consegnare agli archivi senatori, per chi non lo avesse già fatto in seguito all’editto del 1733. Inoltre, dispone di non “confondere le scritture proprie della comune principale con quelle degli aggregati”, ma di mantenerle fisicamente separate e descriverle e inventariarle separatamente; ribadisce che i comuni con scritture rilevanti e quantitativamente ingenti possono dotarsi di uno “speziale archivista”, da individuare con atto consolare che ne fissi anche “stipendio, cautele e condizioni” in modo che l’Intendente (il rappresentante del governo centrale) “possa opportunamente provvedervi”;
- 1° aprile 1838, Istruzione per l’amministrazione dei Comuni: dopo la restaurazione dello Stato sabaudo, conferma esplicitamente e innova le precedenti disposizioni del 1775, stigmatizzando l’inerzia dei comuni nell’applicare quanto disposto circa la tenuta degli archivi, il loro riordinamento, la loro inventariazione e il recupero dei documenti dispersi (sottolineando come “dallo smarrimento d’una semplice carta vengano quelli esposti a gravissimi danni”); nuovamente ordina di procedere con atto del Consiglio a comunicare formalmente al Governo lo stato dei propri archivi;
Con non poca amarezza balza all’occhio come le indicazioni/prescrizioni di stampo archivistico, fra l’altro accompagnate da promesse di pene e sanzioni, fossero così tanto disattese da obbligare a scrivere severe reprimende nel testo stesso dei provvedimenti, quasi a lasciarci testimonianza diretta di quanto atavica sia la scarsa attenzione delle istituzioni verso la documentazione da esse stesse prodotta.
[…] si deve lamentare che a malgrado dei ripetuti eccitamenti stati fatti dall’Autorità superiore, non siasi dovunque pervenuto sinora ad un simile tanto essenziale riordinamento [..].Ella è però mente e volontà determinata del Ministero che questo non venga più lungamente differito in tutti quei Comuni, li di cui archivi trovansi tuttora in dissesto, malamente od insufficientemente ordinati.
Istruzione per l’amministrazione dei Comuni, 1° aprile 1838
Eppure, dai provvedimenti emerge anche una certa modernità archivistica: in tutti si trovano cenni sulle cautele per la conservazione delle carte uniti a sensati principi di controllo delle consistenze della documentazione (magari più legato a esigenze patrimoniali che ad amore documentale); nell’ultimo, dopo la dominazione francese e la restaurazione dello Stato sabaudo, compaiono indicazioni che guardano all’ordinamento dell’archivio con una prospettiva storica, consapevole. La modernità si accompagna, inoltre, alla chiarezza delle istruzioni, direttamente applicabili:
- in tutti i provvedimenti compaiono tracce, precise e corrette, di archiveconomia ante litteram: dedicare all’archivio stanze con il “soffitto a volto” (non di legno), prive di camino e arredate con sufficienti armadi, dotate della “doppia e differente chiave” (una del Segretario e l’altra del Sindaco), distinguere le “caselle d’archivio” con numeri e lettere per ritrovare con facilità le carte ecc.;
- è regolamentata la figura professionale, specializzata, dell’archivista, meritevole di riconoscimento ufficiale e di uno stipendio (di cui si fa carico il Governo centrale);
- indicazioni circa l’ordinamento della documentazione, anche con riguardo alla prospettiva storica: nel regolamento del 1838 si forniscono indicazioni chiare su come riordinare gli archivi “per ordine di materie” e “per ordine di serie” (che oggi chiameremmo piuttosto subfondi), che seguono i cambiamenti storico-istituzionali con le sue due grandi cesure che individuano “tre tempi“:
- 1° quello decorso “prima dell’invasione francese” (Antico regime);
- 2° quello “durante l’invasione stessa” (Età napoleonica);
- 3° quello che comincia “dall’epoca del ritorno in Piemonte degli augusti Regnanti” (Restaurazione).
- riguardo l'”ordine di materie“, che in questo contesto non va confuso con l’orientamento peroniano circa l’organizzazione dei grandi archivi di concentrazione, il regolamento del 1838 propone quello che noi chiameremmo “titolario” o “piano di classificazione“, per “classificare e registrare secondo gli oggetti diversi di servizio”. In questo caso si individuano 80 categorie che corrono attraverso i tre tempi di sopra;
- si prescrive di dividere carte, scritture a atti in fascicoli, che a loro volto formano volumi, da classificare e individuare con “numero d’ordine corrispondente a quello dell’inventario generale”;
- si danno indicazioni pratiche e si allegano modelli (“moduli”) per la coperta, o camicia, dei fascicoli, per le rubriche, gli inventari, i registri di corrispondenza ecc.;
- già nei primi provvedimenti si esige che sia un atto consolare a prendere formalmente atto dello stato dell’archivio comunale e comunicarlo al Governo centrale: il moderno principio dell’engagement del management (tradotto: “se non ci crede nemmeno la dirigenza…”), uno dei capisaldi della norma ISO 15489 sulla gestione documentale (e punto irrinunciabile per il successo di ogni intervento all’interno di un’organizzazione).
A leggere adesso questi provvedimenti, precursori del dedalo moderno di dpr, dpcm, d.lgs, regole tecniche, linee guida e faq, si genera una certa nostalgia nei cuori di chi opera oggi negli archivi, specie quelli “correnti”, ed è costretto a districarsi nei vari livelli normativi per poi rendersi conto della genericità delle indicazioni attuali e scoprire di doversi inventare ogni volta espedienti organizzativi particolari e assumersene piena responsabilità. Nella stessa tradizione di prescrittiva chiarezza si pongono anche provvedimenti successivi dell’Italia unita, capace di produrre testi normativi “unici” che coniugano rigore disciplinare e istruzioni pratiche: la Circolare Astengo rivolta agli uffici comunali sul finire dell’Ottocento e l’analogo provvedimento, di poco successivo, rivolto a quelli ministeriali. Qui si descrivono veri processi operativi: la correzione di errori sui registri, la transizione al nuovo piano di classificazione, le modalità di inserimento dei documenti di un fascicolo nella camicia, fino a dare indicazioni su materiale e dimensioni per le camicie stesse….
Riassumendo, nel contesto piemontese fra Settecento e Ottocento si assiste a modernità. pragmatismo e operatività nelle indicazioni del Governo da una parte e sostanziale disinteresse delle istituzioni destinatarie dall’altra, la parte che, paradossalmente, gli archivi li produce e li usa.
Se neanche l’emanazione di direttive chiare e operative, per di più accompagnate da minacce di pene, non è in grado di scalfire disaffezione e disinteresse diffusi delle istituzioni verso i propri archivi, viene da chiedersi (del tutto retoricamente) come gli indirizzi attuali, contenuti in norme primarie o in linee guida, molto vaghi e di cornice soprattutto quando riguardano il digitale – e che per di più vorrebbero incidere su un contesto irrimediabilmente ibrido – possano mutare la percezione comune circa l’utilità degli archivi.
Gli archivi di carta, visti da lontano, sono spesso percepiti come un peso voluminoso e polveroso che sottrae spazio ad attività più redditizie o in grado di dare visibilità. Invece quelli digitali, semplicemente, non sono proprio percepiti, perché apparentemente immateriali e, comunque, governati dall’intelligenza della macchina: perché mai l’uomo dovrebbe curarsene?
Del resto, nella cultura popolare nostrana di largo consumo, nel mainstream specchio dei tempi, il ruolo degli archivi è controverso. La letteratura e la cinematografia non dipingono quasi mai archivisti cattivi o perfidi, ma altrettanto raramente raggiungono livelli di esaltazione o apologia della loro funzione.
L’Ispettore Coliandro, nato dalla penna di Carlo Lucarelli e cresciuto eroe involontario, primitivo e sessista di una serie TV, perennemente denigrato e svilito dai superiori, in uno spot radiofonico per promuovere i nuovi episodi ripercorre nel suo caratteristico soliloquio le mansioni degradanti alle quali è stato adibito: fra queste, l’archivio costituisce il punto più basso.
L’integerrima e politicamente scorretta Imma Tataranni, sostituto procuratore di Matera nell’omonima serie televisiva ispirata ai romanzi di Mariolina Venezia, riconosce come indispensabile e vitale l’archivio per la vita della Procura e della Giustizia, che non può confidare solo sulla proverbiale memoria della protagonista. Tuttavia prende atto dello stato di inefficienza in cui versano le cancellerie italiane a tutte le latitudini. Del resto, l’archivio della sua Procura è il parcheggio della moglie, oca e ludopatica, del Prefetto, la quale vive la sua funzione di servizio con stridula indolenza. Al contrario, il Procuratore capo Vitali (coincidenza?) descrive con orgoglio l’imminente digitalizzazione dell’archivio che tanta efficienza porterà nelle istruttorie. Con saggezza e perita competenza di settore mette anche in guardia sul fatto che tuttavia, nel non breve periodo di attività degli incaricati alla digitalizzazione, l’accesso ai fascicoli sarà ancora più difficoltoso.
In Distretto di Polizia, il Sovrintendente capo Parmesan – interpretato dal recentemente scomparso Roberto Nobile – vive la sua vita lavorativa intorno a una scrivania nei locali dell’archivio del Commissariato che cura con lo stesso amore paterno e disinteressato che riserva ai colleghi più giovani, in cerca di supporto e consigli. Egli è il punto di riferimento per le confidenze personali e per le ricerche d’archivio, tanto quelle di fascicoli cartacei quanto quelle su banche dati informatiche che, con tanto sforzo e per amore di servizio, ha imparato a usare in età già matura. Quando Parmesan è assente, in effetti, nel Commissariato aleggia un certa aria di disagio data dalla inconsapevole sensazione della temporanea indisponibilità dal patrimonio informativo e documentale, indispensabile per le indagini.
In un certo senso la considerazione per l’archivio diffusa fra i non addetti ai lavori è un po’ come quella per l’aria (e la libertà) che ci racconta Piero Calamandrei: se ne coglie l’importanza solo quando inizia a mancare. Cioè quando non si trova ciò di cui si ha bisogno.
Note
↑1 | Chi volesse approfondire trova, anche disponibili gratuitamente online, rassegne sistematiche, complete e ragionate. Per esempio: Norme sabaude per gli archivi dei comuni, Torino, Centro studi piemontesi, 2012 di Dimitri Brunetti, con ampia bibliografia nelle note e indice cronologico di norme e disposizioni in appendice, con trascrizione dei passaggi di alcune. |
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