Riflessioni teoriche

Il conservatore digitale è l’archivio storico?

L’AgID ha emanato di recente il regolamento sui criteri per la fornitura dei servizi di conservazione dei documenti informatici. Certamente è un modo per colmare il vuoto creato dall’abbandono del sistema di certificazione caldeggiato dalla UE; l’AgID si inventa un regolamento, con annessa vetrina sul Marketplace di AgID per i conservatori virtuosi con i giusti requisiti. Intanto la UE medita di introdurre la qualificazione dei conservatori inserendo la conservazione documentale fra i servizi fiduciari e l’Italia, come spesso capita, parte “avanti” per poi restare irrimediabimente indieto. Ma non è questo il punto.

Nel nuovo regolamento compare una novità molto ma molto significativa: per la prima volta un testo ufficiale, in grado di “fare legge”, distingue chiaramente fra conservazione a lungo termine (permanente, per fini storici, scientifici ecc.) e conservazione… alla maniera del CAD. Infatti, il primo paragrafo dell’articolo 1 del regolamento, si conclude con un enunciato inequivocabile: “Restano esclusi i servizi di conservazione a lungo termine disciplinati dal Codice dei Beni Culturali e le conseguenti attività di vigilanza e sanzionamento”.

La domanda del titolo tradisce immediatamente il suo valore retorico e lascia il campo a un’altra: ci siamo forse fin qui illusi che la conservazione così come raccontata dal CAD delineasse il corrispettivo digitale del’archivio storico e dipingesse il conservatore accreditato come il moderno custode di un archivio di concentrazione?

Se così fosse, bisogna riconoscere che ci sarebbero stati alcuni indizi per accorgersi prima dell’abbaglio, ingenuo e in buona fede, ma pur sempre abbaglio ingannevole. Vediamone alcuni.

Intanto, il Codice dei beni culturali individua i documenti delle pubbliche amministrazioni come beni culturali, ex se, ex lege, ab origine (il latino va da sé a parlare di Codice) e ne prescrive chiaramente l’obbligo di conservazione e di trasferimento negli archivi di Stato o negli archivi storici. Indipendentemente dal supporto. Taluni sostengono che il Codice sia norma datata, intervenuta prima della galoppante digitalizzazione delle carte che si prefigge di tutelare, e quindi non solo diméntica della ma anche inadatta alla documentazione informatica.

Tornando al CAD, le discendenti regole tecniche – che siano in vigore o meno, cogenti o in naftalina o in ibernazione nell’attesa di adeguamento o altro – attribuiscono al responsabile della conservazione documentale un compito preciso: trasferire negli archivi di Stato i documenti informatici sottoposti a conservazione permanente. Le linee guida di probabile futura entrata in vigore e applicazione ripetono l’obligo pari pari. L’indicazione è chiara.

Ci sono poi aspetti, diciamo euristici, che avrebbero potuto e dovuto convincere dell’errore:

  • il CAD prescrive di versare almeno annualmente, tutti i documenti: non, magari dopo qualche decina di anni, una loro selezione;
  • il CAD e la prassi consolidata anche da logiche di mercato pongono particolari enfasi su due tipologie documentarie da inviare assolutamente in conservazione in tempi brevissimi, vale a dire fatture e registro giornaliero di protocollo. Se sull’ultima tipologia può destare stupore giusto la cadenza temporale, per la prima stona davvero il fatto che si tratta di documenti che, con rarissime eccezioni, vanno tradizionalmente al macero dopo dieci anni;
  • al sistema di conservazione accedono esclusivamente i responsabili della conservazione (lato ente e lato conservatore) e pochi altri eletti, niente che riguardi l’accesso diffuso alle fonti storiche.

Tutti gli indizi sopra richiamati mostrano chiaramente ciò che un sistema di conservazione secondo il CAD non è, ciò che non vuole essere. Il sistema di conservazione è, usando un’espressione non mia, il luogo di “consolidamento precoce del valore giuridico-probatorio dei documenti”, probabile figlio di un innato e non necessariamente infondato senso di sfiducia verso la tecnologia digitale applicata a documenti e diritti.

A ben vedere si tratta di una scelta legislativa precisa. Il modello concettuale OAIS (Open Archival Information System) preso come riferimento dal CAD stesso, infatti, soddisferebbe egregiamente le esigenze di un archivio storico rispetto agli oggetti che cutodisce. Lo dichiara manifestamente già nella sua introduzione: “An OAIS is an Archive, consisting of an organization […] of people and systems that has accepted the responsibility to preserve information and make it available for a Designated Community”. Come l’archivio storico, è tutto orientato a rendere fruibile cò che conserva, responsabilmente, a una comunità di utenti.

Abbiamo perso del tempo, nell’illusione che questa pasticciata conservazione del CAD potesse risolvere le questioni di scarto-selezione-conservazione permanente? E adesso, abbiamo un posto dove mettere tutti questi documenti informatici che si avviano a esaurire la loro funzione originaria e a diventare fonti per la storia? Gli attuali sistemi di conservazione possono evolvere e soddisfare anche le istanze di una prospettiva storica?

PS: Aiuta a rispondere a questi interrogativi e a sgombrare il campo da equivoci e falsi miti un altro documento recentemente pubblicato da AgID: il modello di riferimento per i Poli di Conservazione e della relativa rete nazionale (che ho scoperto e letto solo immediatamente dopo aver scritto quanto sopra). Il modello, pubblicato 3 giorni prima del regolamento per i servizi di conservazione, non è una fonte del diritto, né primaria né secondaria, ma è senza dubbio una pubblicazione di valore tecnico-scientifico, scritta con attenzione e qualità. Le prima quattro sezioni offrono una sintesi chiara e neutrale sullo stato della conservazione, digitale e non, in Italia e sulle disposizoni normative in tema di archivi e documentazione. Nella quinta sezione emerge con forza il vuoto legislativo e di strumenti che riguarda la conservazione digitale a lungo termine e che la rete dei poli di conservazione dovrebbe riempire: “L’attuale normativa sulla conservazione digitale non prende in considerazione, se non marginalmente, la conservazione a fini storici di documenti e archivi digitali, così come non specifica le funzioni di fruizione del patrimonio documentale, insite invece nella definizione di “archivio” data dal Codice dei beni culturali e anche dallo standard OAIS (ISO 14721)”.

(Foto di Ag Ku da Pixabay)

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