Interrogativi e problemi apertiRiflessioni teoricheTrasformazione digitale

Archivista datti da fare, la memoria si sa arrangiare

A volte basto uno stimolo, una scintilla, per fare un salto di qualità (o, almeno, di livello) nella propria riflessione. In più di un’occasione ho evidenziato come certi interventi di trasformazione digitale siano del tutto dimentichi delle questioni documentali. Essi, spesso, si mostrano anche noncuranti della normativa che – almeno in ambito pubblico – regola formazione, gestione e conservazione di quei documenti che, per forza di cose, si realizzano nello svolgimento dell’attività che l’intervento di turno mira a trasformare in chiave digitale.

E’ stato, da ultimo, il caso di inPA che, senza porsi il problema, prima non facilita l’ingresso delle domande di concorso nell’archivio di chi lo ha bandito e poi le cancella, così, per limitare la conservazione dei dati personali. C’è poi il caso di SEND, piattaforma nazionale per le notifiche digitali, che si occupa di spedire documenti e che bene si inserirebbe nei flussi documentali esistenti; ma invece no, da occasione ghiotta per migliorare i sistemi documentari si è trasformato in occasione per l’ulteriore frammentazione degli archivi correnti digitali. E poi il caso dell’e-procurement o dei sistemi a servizio degli sportelli unici, allergici alla protocollazione delle comunicazioni nel registro dell’amministrazione procedente. Si potrebbe andare avanti. Il denominatore comune è il percorrere strade “nuove” senza preoccuparsi delle regole vigenti, più o meno codificate, e che, pur affogate – quelle codificate – nel diritto amministrativo, si occupano di gestione documentale. Questo crea, almeno in chi nelle regole cercherebbe una guida e un riferimento (e non solo un riparo da eventuali punizioni), disorientamento e dissidio. Ma perché?

Lo stimolo citato in apertura è una fotografia, in un post di cronaca in diretta dall’evento formativo e di networking “Meddle” organizzato da Digitalaw. L’immagine documenta l’intervento di Federico Valacchi e, sullo sfondo, si intravvede una diapositiva con titolo “L’archivistica e la realtà”. Vi si legge come “i sistemi documentari evolvono in ragione di trasformazioni politiche, tecnologiche, sociali e culturali” e si coglie la suggestione che l’archivistica, “disciplina ex post“, vi si adatti.

Ulteriore stimolo è stato lo scambio di considerazioni con Federico Valacchi, che risponde a una mia ricondivisione commentata del post originario. L’occasione, da sola, non risolve disorientamento e dissidio, ma aiuta a scomporre il problema e rivederlo da almeno tre angolazioni, tre dimensioni che nel seguito mi propongo di illustrare, permettendomi di saccheggiare a piene mani le parole altrui (virgolettandole, dove possibile). Va da sé che il tema è ben più grande di un post su un blog, che può valere solo come suggestione ed evocazione.

La dimensione storica, la memoria

Gli archivi sono l’esito di un’attività pratica e concreta, si sa. Le trasformazioni incidono su come l’attività pratica è condotta e, di conseguenza, su come questa viene documentata. E’ l’uso diffuso delle tecnologie informatiche e digitali nell’attività pratica che ha creato il documento informatico e non il contrario, non è la voglia di supporti documentari eterei che ha imposto l’uso della tecnologia digitale in ogni ambito della vita. Risulta, quindi, del tutto condivisibile che “le grandi piattaforme […] sono almeno in buona parte non tanto una deviazione dell’archivio quanto – molto archivisticamente – il risultato della modifica del modo di agire dei soggetti produttori sempre più spesso “interoperabile” e meno verticale che in passato“. Non vi è motivo alcuno, quindi, che l’archivista si opponga al loro sviluppo. Altrettanto condivisibile è che l’archivistica, con il suo “impianto di base, […] può però aiutarci a cercare delle soluzioni, insieme ad un’altra serie di domini della conoscenza. Ragionare davvero anche archivisticamente nella dimensione squisitamente operativa potrebbe servire“.

L’archivistica come “arte d’arrangiarsi” sa benissimo raccontare e descrivere le trasformazioni che furono. Non teme di descrivere neppure quella documentazione che si fosse accumulata infrangendo quelle regole e quei canoni – pretesi immodificabili – che ne guidano la sedimentazione ordinata e organica. L’archivistica sa persino adattarsi a perdite e lacune, perché riesce ad attribuire un significato contestualizzato anche al vuoto e al silenzio.

Dal punto di vista della conservazione della memoria, dunque, forse, non è il caso di accumulare troppa ansia: il futuro saprà elaborare gli strumenti per riordinare la memoria di un passato che, come nostro presente, ci appare confuso e disperso. Che si tratti di riflessioni e pensieri notevoli affidati al concone dei social invece che a carteggi privati, oppure che si tratti di procedimenti amministrativi con un iter frammentato in vasi documentali separati e non comunicanti.

La dimensione giuridica, l’attuale immediato

L’archivista che si osserva l’archivio che si forma, tuttavia, può non sentirsi del tutto sollevato. Ha imparato ad applicare certe regole, apparentemente ragionevoli, che vede puntualmente disattese. Regole che sono anche stampate nel diritto positivo.

Alcuni interventi di trasformazione digitale infrangono, con piena evidenza, il complesso di disposizioni che più direttamente si occupa di formazione e gestione del documento. E’ evidente: il documento informatico va registrato in un sistema di gestione informatica dei documenti, lo dicono – per i soggetti pubblici – il Testo unico delle documentazione amministrativa, il Codice dell’amministrazione digitale e le Linee guida sul documento informatico. E non in un sistema qualsiasi, ma in quello del soggetto che è responsabile dell’affare che origina il documento, del procedimento amministrativo se siamo in ambito pubblico.

Gli archivi, inoltre, non si frammentano, nemmeno quelli correnti, lo dice il Codice dei beni culturali, poggiandosi su decenni (secoli?) di disciplina archivistica.

Questo mette a rischio anche il valore giuridico delle attività che si conducono? Una gestione documentale eversiva, che diverge dalla norma di legge, inficia anche le questioni sostanziali di diritto che tenta di rappresentare (o costituire)?

Perché, a ben vedere – ma mentre lo scrivo mi chiudo gli occhi e, per sicurezza, mi tappo pure le orecchie – se un’istanza che avvia un procedimento sta in un sistema altrui, ma è comunque riconducibile al suo autore, collocabile nel tempo, non alterata da azioni volontarie o accidentali e accessibile all’occorrenza… cambia qualcosa? Se la ricostituzione di un fascicolo richiede una faticosa via Crucis le cui tappe sono i diversi sistemi documentari nei quali il procedimento, attraversandoli, ha lasciato tracce significative, la sostanza di domanda, istruttoria e decisione cambia? La domanda è aperta e non deve assolutamente essere la scusa per un “liberi tutti” da qualsiasi dovere di ordinata gestione documentale. La frammentazione della documentazione corrente, probabilmente, aumenta la fatica di gestire il processo.

La dimensione operativa, la produttività

Su quest’ultimo punto si innesta la questione forse più contingente e distante dalla conservazione della memoria: l’efficienza operativa nella conduzione dell’attività. L’archivista moderno si sporca le mani (e meno male) anche nella (ri)definizione dei processi “produttivi”, contribuendo a disegnarli in modo che diano alla luce un residuo documentale affidabile e credibile, magari riusabile – come da migliore tradizione – con il minimo sforzo, anche ai fini di quei compiti di responsabilità sociale, che si tingono ora dei toni della trasparenza ora di quelli dell’accountability.

Il disegno deve però anche occuparsi dell’ergonomia, della facilità d’uso, di automatizzare dove possibile. Avere il colpo d’occhio sulla storia dell’attività (l’iter del procedimento) è fondamentale per chi la porta avanti o vi interviene incidentalmente. Darne evidenza all’esterno è doveroso non solo in termini di obblighi normativi (vedi art. 41 del CAD), ma anche per i motivi di una cultura contemporanea che vuole una pubblica amministrazione collaborativa al fianco di cittadini e imprese e non entità contrapposta o antagonista. Non solo quando si dovrà conservare la memoria, ma anche qui e adesso, ricondurre a unitarietàla delocalizzazione delle sedimentazioni che ostacola una percezione unitaria o almeno univoca” è vitale. Non sempre gli strumenti elaborati rendono il compito agevole o sostenibile: l’agognata e asserita interoperabilità di dati, documenti e sistemi è anch’essa, come la gestione documentale, lasciata indietro, spesso a vantaggio di una narrazione condizionata dalla (auto)celebrazione dei successi di un’iniziativa.

Conclusioni

Al momento, di conclusivo vi è poco. Si rafforza la convinzione che sia doveroso continuare a riflettere, fattivamente, “insieme ad altri domini della conoscenza” per “individuare il momento o i momenti di revisione” (e i modi) di una o più delle dimensioni richiamate sopra, che oggi, adesso, stridono fino a produrre chiasso quando si tenta di accostarle e farle convivere.

Ringrazio Federico Valacchi, anche per un suggerimento sul titolo, e la mia collega Cristina Bertolino, per i continui scambi mentre condividiamo la trincea.

Foto di Daniela Dimitrova da Pixabay

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *